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Pagina Tre_Ho osato vincere

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di Oscar Buonamano

Ci sono campioni dello sport che restano impressi nella memoria di ognuno di noi e che ci segnano indipendentemente dalle vittorie. Le vittorie, i record, le belle prestazioni, sono importanti, sono l’essenza stessa dello sport, ma il campione è tale se ha qualcosa in più. Qualcosa che va oltre la vittoria, il record o la prestazione straordinaria. Il campione sa incendiare i cuori anche quando non vince, soprattutto quando non vince. Crea senso di appartenenza. Soprattutto il campione non invecchia mai, resta fisso, immobile, nella tua mente con la stessa, identica, faccia che non conosce età e tempo. Francesco Moser è uno di questi. Un campione che ha fatto piangere di gioia generazioni di appassionati di ciclismo e che resta, ancora oggi, uno dei campioni più amati di tutti i tempi dello sport italiano. Un campione che ha vinto molto e che è sempre rimasto umile e legato alla sua terra d’origine, ai valori con i quali è cresciuto, alla sua gente.
«Palù è rimasto il perno attorno al quale ha ruotato tutta la mia vita, benché nel corso degli anni il raggio della ruota si sia allungato fino ai confini della terra, dal Venezuela, dove ho conquistato la maglia iridata, al Giappone, dove sono stato il primo ciclista italiano a gareggiare. Non importa fin dove sono arrivato. Sono sempre tornato qui, dopo ogni vittoria come dopo ogni sconfitta. Perché nessuno può restare se stesso senza le proprie radici».
Ho osato vincere, l’autobiografia di Francesco Moser è, soprattutto nella sua prima parte, l’autobiografia di una famiglia che ha dato molto al ciclismo italiano ed è contemporaneamente il racconto di un’Italia che sapeva lottare ed emanciparsi senza snaturare la sua natura.
«Un giorno di fine giugno Aldo mi propone un giro in bicicletta. Ho compiuto diciotto anni da una settimana e sento ancora quello strano nodo alla gola. Per una volta tanto provo a spingere, se non altro per ricacciare indietro il groppo, quella sensazione di essere nei pressi di un valico sconosciuto e di non sapere cosa ti aspetta al di là, se sole o pioggia, neve o vento. Nel frastuono dei pensieri non sento mio fratello Aldo che mi urla di aspettarlo. È rimasto indietro sulla salita di Palù.
Appena rientro a casa annuncio che correrò. Il più sorpreso sono io».
In casa erano in undici, esclusi mamma e papà. Aldo, Enzo e Diego, tre dei suoi fratelli sono stati ciclisti professionisti. Inizia a gareggiare tardi, dopo aver compiuto i diciotto anni, perché dopo la morte del padre c’era bisogno che qualcuno si occupasse del lavoro nei campi. Un inizio per niente facile, soprattutto perché Francesco Moser è uno che non abbassa la testa di fronte a nessuno. È abituato a lottare e a battersi per le proprie idee.
«Aprire nuove strade sembra il mio destino fin dal principio. Come quando mi rifiuto di partecipare al Giro. Mai nessuno italiano di classifica si è sognato di disertare un Giro d’Italia per manifestare il proprio dissenso agli organizzatori. Mai nessuno si è spinto così avanti. Io, si. […] Quando la Filotex ufficializza la rinuncia al Giro scoppia la bomba. Gli organizzatori non possono accettarlo, mettono in campo addirittura un paio di ministri per fare pressioni. La linea Roma-Prato e Milano-Prato è rovente. Ma io sono irremovibile. “Non siamo schiavi. Abbiamo il diritto di dire di no».
Vincente fin dalle prime gare, si capisce subito che il più giovane dei Moser ha la stoffa del campione. Difficile da gestire, ma è uno che “morde” la strada. Subito dopo il gran rifiuto al Giro d’Italia e non prima di aver vinto alcune gare in Francia, si presenta a Pescara per il campionato italiano su strada.
«Pochi giorni prima del Tour, mi presento alla partenza del Campionato italiano forte delle belle vittorie in terra transalpina. Il titolo si assegna a Pescara in occasione del Trofeo Matteotti. È una giornata di caldo torrido, si ha difficoltà perfino a muoversi, figurarsi a pedalare a tutta. Il percorso di 260 chilometri è molto impegnativo, di quelli che piacciono a me, e con la temperatura di oggi è quasi proibitivo […] Vinco davanti a Valerio Lualdi e Costantino Conti, conquistando la prima maglia tricolore   da professionista, dopo quella da dilettante. Nell’anno in cui ho detto di no al Giro, divento campione d’Italia. L’Italia mi ama e io sento di amarla».
Una delle 273 vittorie su strada che ne fanno il più vincente corridore italiano di tutti i tempi e il terzo al mondo. Impossibile nominarle tutte, così come difficile dire qual è la più bella. Certo ci sono alcune vittorie che, forse, sono, più belle di altre.
«È una domenica d’aprile del 1978. La Pasqua è stata celebrata da tre settimane, ma oggi è giorno di morte o resurrezione. È giorno di Parigi-Roubaix [...]Nevischia alla partenza. Poi si scatenano gli altri elementi: pioggia, sole e vento […] A ventidue chilometri dal traguardo scatto. Maertnens e Raas tentano di venirmi a riprendere con De Vlaminck a ruota, ma resisto […] Appena entro nel velodromo il pubblico schizza in piedi. I francesi mi hanno adottato. Mi applaudono, scandiscono il mio nome […] Sto arrivando, amici. Sto arrivando. Alzo le braccia al cielo. Ed è arcobaleno su Roubaix».
La Parigi-Roubaix vinta per tre volte e l’amore dei francesi per Francesco Moser occupano certamente uno dei tre gradini sul podio nella speciale classifica delle vittorie più belle.
«Lunedì scendo in pista alle nove. Le tribune sono piene in ogni ordine di posto […] Fa ancora freddo e c’è vento. Gli uomini della Enervit sono nervosi […] Tranne Martini, nessun altro tecnico o direttore sportivo è giunto dall’Italia […] Fucacci ed Enzo mi aiutano a salire sulla bicicletta. Mi sento un bambino nelle loro mani. Mi imbullonano al mezzo meccanico e mi spingono. Sono una cosa sola con la bicicletta. Sono la bicicletta […] La tabella di marcia più ottimistica prevedeva un risultato vicino ai 51,2 chilometri. Sto sotto di pochissimo: chiudo coprendo 51 chilometri e 151 metri […] Balliamo sul tetto del mondo».
Il 51,151 realizzato a Città del Messico, nuovo record dell’ora e che proietta il ciclismo nel futuro, non sfigurerebbe sul secondo gradino del podio.
«All’ingresso di Verona l’urlo del pubblico sale di intensità. Solo all’imbocco del tunnel dell’Arena mi rilasso. In quei pochi metri di buio vedo una grande luce dai contorni rosati. Entro nell’anfiteatro ed è un tuffo nella luce e nella gioia. Un boato assordante scuote le fondamenta del secolare edificio e del mio animo. Ho corso a quasi 51 chilometri orari di media. Ho vinto il Giro d’Italia. Ho spezzato l’incantesimo […] Dopo il record dell’ora e la Milano-Sanremo, ecco il terzo atto della mia resurrezione. Oggi il paradiso è rosa».
La vittoria al Giro d’Italia non può che occupare il gradino più alto nel Palmarès di Francesco Moser. Il Giro che si era rifiutato di correre da giovanissimo e che gli creerà non pochi problemi per la sua futura carriere. Una  vittoria che farà salire tutti sul carro del vincitore per “cantare” le lodi del campione che «ha riportato nei nostri anni Ottanta i giorni di Coppi e Bartali».
L’entrata all’Arena di Verona di quel 10 giugno del 1984 me la ricordo. Doveva recuperare 1 minuto e 21 secondi sulla maglia rosa, Laurent Fignon. Li recuperò e d andò oltre. Mi ricordo le mie lacrime di quel pomeriggio. Lacrime di gioia e di vicinanza per un atleta che aveva accompagnato la mia adolescenza e l’aveva traghettata nella gioventù. Lacrime liberatorie più belle di quelle versate per la Parigi-Roubaix, più intense di quelle versate per il record dell’ora. Lacrime indimenticabili e indimenticate perché vincere a casa propria è sempre più difficile che vincere altrove. Vale per noi, comuni mortali, valeva anche per Francesco Moser, il migliore di tutti.

Ho osato vincere
Francesco Moser con Davide Mosca
(Mondadori, 2015. 222 pagine. 19,00 euro)


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